Conflitti e riequilibri. Future implicazioni politiche ed economiche per l’area eurasiatica.

Anche se questo conflitto è cominciato da oltre un mese, si sono prodotti più documenti tra video, “inchieste”, opinioni e articoli che forse in tutta la seconda guerra mondiale. Al pari però di quell’immane pandemonio di quasi un secolo fa, lascerà dietro di se decenni di dibattiti e dietrologie di ogni specie.

Lungi dalle visioni manichee, parteggiando in altre parole per un presidente o l’altro, è compito di chi analizza fatti fornire informazioni utili a comprendere le dinamiche in atto. Non è fornendo opinioni spacciate per dati assodati che si stimola la riflessione; non è nemmeno inondando di spazzatura la Rete che si crea una qualche coscienza critica. Semmai, la capacità critica è qualcosa che si costruisce giorno per giorno, con pazienza e, magari, rivedendo posizioni prese sull’onda emotiva del momento.

Infatti l’onda emotiva, lo sgomento e la costernazione sono strumenti da sempre usati per far breccia nelle convinzioni e impedire l’analisi razionale: dagli spauracchi religiosi alle fantasiose teorie complottarde, tutto ciò che ti spaventa ti rende purtroppo impermeabile all’ascolto di soluzioni realmente praticabili.

Se mai queste righe possano in qualche modo avere un senso, è quello di proporre una visione più ampia del fenomeno in atto, spostando indietro di qualche anno un’analisi dell’inizio dei dissidi. Vi erano delle evidenze molto chiare: bisognava però riuscire a mettere assieme i vari pezzi, con un po’ di pazienza e prima di tutto sospendere il giudizio.

Pazienza e sospensione del giudizio sono due elementi che sembrano alquanto estranei ai dibattiti della nostra contemporaneità in quanto non ammettono la compresenza con lo sgomento, le paure e i sospetti. Le spiegazioni “semplici” ma sarebbe più opportuno definirle banali (nel senso più pieno che la logica possa attribuirgli) sono quelle che impegnano meno a penetrare nella chiacchiera da sala d’attesa e da osteria. I quali, per inciso, sono ambienti nei quali è sempre utile ascoltare cosa hanno da dire le persone e dai quali ci siamo allontanati.

Le banalità che conducono a un posizionamento duale, pro o contro qualcosa, che infiamma i dibattiti stile tifoserie da stadio, sono il prodotto più concreto, la pustola più evidente del morbo che sfianca la capacità critica, gli effetti più lampanti del rumore mediatico, che non informa ma conforma. Nel mentre ci si accapiglia per trovare ragioni per stare con l’uno o l’altro stato, accade che la popolazione di entrambi soccomba tra bombe e operazioni di polizia ma, grazie al sangue e alle manette, si prepara l’opinione pubblica a una serie di cambiamenti in perfetto stile “shock therapy”.

Innanzitutto certo non è etico continuare ad accettare di acquistare gas, petrolio ed altri prodotti da uno stato canaglia come la Russia, una dittatura governata da sudicioni oligarchi, ignoranti come capre, brutti come la fame e spendaccioni come sceicchi. Sembra però che ci siamo accorti di tutto questo solo da un mesetto: fino a praticamente ieri tutto andava bene ed abbiamo continuato a commerciare con la Russia nonostante gli scontri e le repressioni in Cecenia (dal 1991 al 2000) e in Georgia (2008). Magari non c’erano bombardamenti così eclatanti, ma non sono stati sicuramente sparati dei mortaretti e i cannoni non erano certo caricati a mortadella.

Insomma fino a pochissimo fa, gas petrolio e carbone russi e dei vari stati satellite non ci facevano poi tanto schifo; forse, però, questi scambi non erano molto graditi a qualche altra entità presente sullo scacchiere internazionale e che, nel frattempo, perdeva terreno e controllo in questo stesso scacchiere globale. Allarghiamo allora per un attimo lo sguardo ampliando la finestra temporale e cerchiamo di capire cosa è successo negli ultimi trent’anni.

Dagli anni ’90 in poi l’imporsi della crescente produttività cinese ha polarizzato una serie di attività, innanzitutto quelle fasi produttive in misura minore remunerative o ecologicamente impattanti. Il programma di industrializzazione di Deng Xiao Ping ha fornito notevoli vantaggi competitivi offshore per Europa e Stati Uniti (Canada e Australia non sono da meno per ciò che concerne questo discorso ma, al momento, ci concentreremo su UE e USA), esportando tutte quelle fasi produttive scarsamente remunerative o per le quali le leggi sulla salvaguardia dell’ambiente richiedevano troppi accorgimenti limando al ribasso i guadagni.

Le attività offshore hanno sicuramente garantito maggiori introiti ma, allo stesso tempo, hanno anche innescato una serie di fenomeni socio-economici le cui conseguenze sono state un aumento della disoccupazione nei settori della manifattura e l’evaporazione di alcuni distretti industriali storici (ad esempio la Rust belt negli Stati Uniti d’America e le contrazioni dei distretti del centro e del nord Italia o la conurbazione di Manchester in Inghilterra). Morale della favola queste operazioni di progressivo smantellamento di apparati produttivi hanno avuto alcuni effetti macroscopici sia a livello interno sia a livello extra territoriale. Da un lato un rallentamento della crescita dei vari paesi coinvolti (definita stagnazione secolare) che, però, contemporaneamente, vedeva le aziende che lavoravano pesantemente con l’offshore verso altri paesi crescere i loro ricavi pur non producendo praticamente più redditualità in casa: il tutto comportava un divario crescente ed una minore capacità redistributiva dell’apparato statale.

In campo internazionale le cose non sono andate sicuramente meglio. Indebolendosi la domanda interna di semilavorati e prodotti finiti ci si è rivolti agli unici mercati trainanti, che erano poi quelli asiatici nei quali una nuova classe media stava crescendo e voleva tutto quello che si poteva comprare. Quindi forti export da un lato ma, contemporaneamente, scarsa domanda interna non garantiscono quella solidità da grandi potenze e cominciano ad innescare malumori e proteste – cose queste che non fanno bene alla reputazione internazionale quando ci si erge ad esportatori di democrazia.

Se poi consideriamo che sulla crescita della domanda interna gli Stati Uniti d’America ci hanno impostato le politiche di espansione fino all’altro ieri, è facile capire come una situazione di flessione della crescita (in senso ovviamente neoclassico) non fa dormire sonni tranquilli a chi ha propagandato il sogno americano per entrare nello Studio Ovale. Dopo aver annichilito molta della sua produzione interna lo zio Sam si ritrova non solo a dover competere con un Oriente sempre più spendaccione e sempre più propenso a prendere il controllo su tutto quello che riesce ad agguantare (in questo sarebbe un errore marchiano ritrarre la sola Cina come agente economico dominante, l’India non deve essere esclusa dal ragionamento) ma addirittura a dover dipendere da questo per molta parte dei suoi prodotti.

Questa che può sembrare una divagazione è, invece, necessaria per inquadrare la situazione attuale. Infatti se con l’intensificarsi degli scambi EU/Oriente gli USA cominciano a sentirsi un po’ esclusi, è chiaro che non staranno a guardare senza far nulla. Le azioni coordinate UE/USA come ad esempio il Green Deal europeo ed il Green New Deal di matrice statunitense sono da inquadrare in questo contesto, volti cioè a dare uno stimolo di medio-lungo periodo a tutta una serie di attività in affanno.

La decarbonizzazione “smart”, che prevede il passaggio dal fossile solido e liquido a quello gassoso (ammazza che smart!), ha posto le basi per una serie di interventi “in house” mirati a risollevare tutto quello che negli ultimi 25-30 anni è andato in stagnazione. In questo quadro vanno inserite finanche le innovazioni sull’idrogeno per massimizzare le fasi di produzione chimica, petrolchimica e siderurgica (Idrogeno Grigio, Marrone e Blu) ed inserirlo nei gasdotti per diminuire una quota parte degli acquisti e allungare la vita dei giacimenti, il tutto ovviamente al suono del mantra dell’economia circolare.

Essendo questo il quadro generale si può cominciare a capire come il gas abbia negli ultimi tre lustri acquisito un rilievo internazionale mai avuto prima. Questo comincerebbe anche a spiegare l’esigenza di approvvigionamenti continui e di nuovi metanodotti in giro per l’Europa, in una corsa tra Federazione Russa ed altri paesi come Azerbaijan e Ucraina. Giusto per ricordare un dato, il TAP parte esattamente dall’Azerbaijan.

In tutto questo complesso schema abbiamo altri due elementi da inserire: il primo è rappresentato dai vari giacimenti di Canada e USA che sarebbero ben disposti a vendere sul mercato europeo tanto energivoro, dall’altro il cambio del tipo di contrattazione avvenuto nel corso degli ultimi due lustri. Questi due elementi non sono secondari in questa complicata faccenda. Il primo è assai più evidente in termini di notizie e passa per l’aiuto dei partners occidentali per liberarsi dalla dipendenza dalla Russia.

Nel Novembre del 2018 Rick Perry, il segretario all’energia americano, si è recato nell’Europa orientale per cercare di vendere il gas naturale liquido (GNL) del suo paese. A Varsavia ha annunciato un contratto di 24 anni con la compagnia statale polacca del gas, PGNiG, in base al quale questa riceverà 40,95 miliardi di metri cubi di gas da un fornitore americano, Cheniere Energy. Perry ha affermato che l’accordo è stato un segnale in tutta Europa sulla “giusta” modalità con la quale il futuro energetico può essere sviluppato.

Lo stesso giorno a Berlino Peter Altmaier, ministro dell’economia tedesco, ha incontrato Alexey Miller, amministratore delegato di Gazprom, il gigante russo del gas. Mentre i due discutevano dell’aumento delle importazioni di gas russo in Europa tramite il Nord Stream 2, un controverso gasdotto dalla Russia alla Germania che viaggia attraverso il Mar Baltico, hanno descritto un futuro molto diverso da quello previsto da Perry. I paesi europei stanno affrontando crescenti preoccupazioni per la sicurezza energetica. La domanda di gas in Europa è aumentata dal 2015, anche grazie all’apertura di centrali elettriche a gas “più rispettose dell’ambiente”, leggi switch-on sul gas per la produzione energetica.

Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), un’agenzia intergovernativa, la domanda totale in Europa (che nella definizione dell’AIE esclude la Russia) ha raggiunto lo scorso anno i 613 miliardi di metri cubi (bcm). L’AIE si aspetta che la produzione di gas europeo si stabilizzi, per poi diminuire leggermente entro il 2040: con la produzione di gas in diminuzione, la regione dipende però sempre più dalle importazioni, in particolare dalla Russia, che già fornisce il 35% della domanda.

La precarietà della situazione si è manifestata nel 2006 e nel 2009, quando la Russia ha temporaneamente interrotto il trasporto di gas attraverso l’Ucraina, causando carenze in diversi paesi. I leader europei hanno iniziato a cercare forniture di gas alternative, incluso il GNL americano (gas Naturale Liquefatto). Oggi quello che ci si presenta è un bel piano di correzione del PNRR con le varianti “rigassificatori”, poiché il gas dal continente americano sarebbe complicato farlo passare in un gasdotto; lo si commercia infatti con le gasiere. gasiere chi fino a ieri rifornivano un altro mastodonte energivoro come la Cina.

Beh, niente da dire: il tipico colpo che ti fa prendere due piccioni con una fava. Vendi la tua mercanzia, vendi la tecnologia per usarla, diventi il nuovo fornitore principale di un’area strategica come l’Europa e metti in difficoltà il tuo concorrente diretto (sempre la Cina) e ne esci pulito. Dal versante del cambio di contrattazione la faccenda è sicuramente più complicata ma l’evidenza è molto più chiara e lampante nell’alleggerimento causato sul portafogli. Il passaggio da contratti long term a contratti cosiddetti “spot” ha di fatto reso il mercato molto più dinamicamente appetibile per gli speculatori. Il passaggio è avvenuto in tempi apparentemente non sospetti ma hanno creato sufficienti fluttuazioni e volatilità da mandare nel panico le persone e cominciare a chiedere a gran voce gas più a buon mercato.

In conclusione, anche se è solo una sintesi parziale della complessità in atto, lo scenario che con maggiore probabilità sembrerebbe delinearsi è quello di un profondo cambiamento nei rapporti economici, quindi politici, all’interno dell’UE e tra questa e le regioni orientali. Il più evidente cambiamento dovrebbe però assai probabilmente avvenire nei rapporti tra USA e UE; non è affatto peregrina l’ipotesi di nuovi trattati di libero scambio tra i due blocchi e, vista e considerata la nuova dipendenza per alcune materie prime necessarie, un nuovo TTTP potrebbe presto profilarsi all’orizzonte e, questa volta, verrebbe acclamato a furor di popolo pur di allentare l’inflazione.

Quindi, vista da una prospettiva più ampia, la situazione della guerra in Ucraina assume i connotati di conflitto strategico per far cessare il quale ogni accordo è valido. Un modo come un altro per far digerire bocconi amari e indigesti spacciandoli per l’unica cura disponibile, in altre parole rendere politicamente inevitabile ciò che sarebbe socialmente inaccettabile. L’uso dell’azione combinata di terrore e pietà scuote gli animi fino ad invocare una soluzione, qualunque essa sia, purché finisca l’orrore.

J. R.

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